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Chiese

Chiesa di Santa Maria del Piano o De Equo

Tipologia: chiesa rurale, già pieve
Cronologia: VIII (?), XII-XIII secolo
La Chiesa di Santa Maria de Equo di Ruscio, oggi Santa Maria del Piano, è ritenuta di fondazione longobarda ma la struttura è di XII-XIII secolo. Reimpiega blocchi romani (con due rilievi di simbologia solare) e conserva affreschi cinquecenteschi nella navata e di XIV-XVI secolo nella cripta.
La Chiesa di Santa Maria de Equo di Ruscio (fraz. di Monteleone di Spoleto), oggi nota come Santa Maria del Piano, sorge in un vasto altopiano attraversato dal fiume Corno, su un precedente centro cultuale pagano. Ritenuta di fondazione longobarda (VIII secolo), il suo toponimo ricorda il gastaldato Equano del Ducato di Spoleto. Documenti trecenteschi la identificano con il titolo di pieve e, quindi, di “chiesa battesimale”. I privilegi e le dipendenze sono progressivamente perduti a favore della Chiesa di San Nicola.
La chiesa, di struttura romanica (che ingloba una cripta riferibile al XII secolo), reimpiega grandi blocchi di epoca romana (due con rilievi di antiche figurazioni solari). Affreschi frammentari s’incontrano nella navata (prima metà XVI secolo) e nella cripta, dove è presente un palinsesto con un ciclo cinquecentesco e un “S. Libertus” del 1370, probabilmente legato al Liberto (o Gilberto) eremita che in Santa Maria de Equo visse e fu sepolto intorno al 1400.


La Chiesa di Santa Maria de Equo, oggi nota come Santa Maria del Piano, sorge in un vasto altopiano di formazione alluvionale e detritica, attraversata dal fiume Corno (ivi era un precedente e antico centro cultuale pagano, posto a controllo di un importante tracciato viario, a lato della moderna strada che porta a Trivio e Rescia). La sua fondazione viene generalmente fatta risalire al periodo dell’ultima dominazione longobarda (VIII secolo), ricordando ancora oggi con il suo toponimo il ministerium o gastaldato Equano nel Ducato di Spoleto, ovvero un distretto territoriale minore, inserito successivamente fra i più antichi gastaldati di Ponte e Narnate, noto fino ad oggi solo attraverso fonti tardive risalenti all’XI secolo (precisamente agli anni 1022 e 1024).
L’istituzione di Santa Maria de Equo e la costituzione in priorato benedettino, dipendente dall’Abbazia di San Pietro in Valle a Ferentillo (TR), verrebbero precedute da una fase più antica, con fondazione di un piccolo oratorio benedettino. I più remoti documenti finora rintracciati intorno all’edificio ecclesiastico non risalgono a prima del XIV secolo e lo identificano con il titolo di pieve e quindi di “chiesa battesimale”, dotata di privilegi e dipendenze, alla quale sono sottoposte tutte le altre chiese e cappelle del territorio, prive di battistero. Nel corso del medesimo secolo con lo spopolamento delle campagne, si assiste a un’involuzione delle responsabilità della pieve a favore della Chiesa intramuranea di San Nicola, che ottiene la giurisdizione e il fonte battesimale (sembrerebbe nel 1310). Successivamente, trasformata in semplice beneficio “sinecura” (senza cura delle anime), “S. Maria de Jecu” è affidata alla custodia stabile di un eremita, mentre le rendite sono date a un religioso beneficiato, senza obbligo di funzioni, uffici e residenza alcuna, spettanti invece al locale curato.
Tale situazione giuridica appare già certa dal registro delle decime della Chiesa di Roma degli anni 1333- 1334, confermata appieno da un codice del XVI secolo comunemente noto come Pelosius, redatto nella stesura originaria intorno al 1393. Conosciamo il nome di alcuni di questi pievani beneficiati, fra cui nel 1465 un tal ser Jacopo e Buzio di Monteleone, D. Giuseppe Rigi attestato nel 1580, D. Antonio Maria nel 1584, i monteleonesi D. Gentile Piersanti (ma originario di Gavelli) nel 1600 e D. Luca Piersanti beneficiario nel 1653, il Card. Giuseppe Vallemani (1648-1725), già Priore di San Nicola di Fabriano, agli inizi del XVIII secolo.
Nel 1702 in una sua pubblicazione Antonio Piersanti annota l’alone di mistero che aleggiava intorno alla struttura: “Questa Chiesa è ben spesso soggetta alle notturne escavationi che ve si fanno da chi ricerca Tesori, e Repostini; rapportandosi per antica traditione, che ivi come luogo esposto al Cannone di Monte Leone, si nascondessero le cose più pretiose di quei luoghi, che secondo le vicende dei tempi erano soggetti all’incursioni, ed alle rapine”.
Alla morte dell’ultimo eremita, Fra Paolo, nel 1731 Santa Maria de Equo (già beneficio semplice), è ulteriormente decurtata dei suoi beni. Infatti, per interessamento del presbitero Giovan Battista Menetoni il pontefice Clemente XII (1652-1740, papa dal 1730) ordina con sua lettera apostolica indirizzata al vescovo di Spoleto il trasferimento delle spettanti decime e delle rendite dei canonicati a favore della Chiesa parrocchiale di San Nicola.
Il nucleo primitivo della più ampia struttura odierna, frutto di una serie di trasformazioni, è da indicarsi nell’ambiente retrostante l’altare, posto ad una quota più bassa del piano di calpestio della chiesa. L’angusto ambiente, interrato e successivamente adoperato come ossario, è riferibile al XII secolo, seppure con alterazioni posteriori. È voltato a botte e ha una stretta finestrella a feritoia protoromanica (la rastremazione in origine si stringeva verso l’esterno, ma, in seguito alla rifoderatura del muro più antico, si è aggiunta una seconda rastremazione aperta verso l’esterno). La pavimentazione è formata dalla giustapposizione di lastre irregolari di pietra, che serbano tracce dell’altare rimosso. Una piccola sporgenza indica l’antico ingresso (e quindi l’originario orientamento della cella) in direzione dell’antica via passante a est del fabbricato. Al di sopra della cripta è l’abitazione dell’eremita, distrutta nel terremoto del 1703 e successivamente ricostruita.
La cripta è inglobata nella struttura romanica della chiesa, con il lineare portale d’ingresso, che forma in alto una piccola lunetta circondata da una semplicissima doppia ghiera, e il paramento esterno costituito da conci di pietra a tratti molto regolari e levigati, che reimpiegano grandi blocchi di pietra di epoca romana, alcuni dei quali scolpiti. Agli angoli delle pareti laterali, in tangenza con la parete di chiusura dell’edificio, sono infatti inseriti due blocchi lavorati a rilievo: l’uno presenta un “cerchio a ruota”, ovvero un cerchio con croce inscritta, solitamente identificato come simbolo del Sole o dell’Infinito; l’altro ha un rilievo cordonato che forma due triangoli contrapposti per il vertice, intesi a raffigurare il sopra e il sotto, il cielo e la terra. Entrambi i rilievi descritti rientrano nel gruppo delle figurazioni solari meandroidi (modulari e ripetitive) e rappresentano una rarità per l’epoca romana, attestando una continuità di riti ctonici risalenti all’età del ferro.
Sul lato sinistro della chiesa sono invece alcune mensole aggettanti, interpretate quali resti di un porticato al di sotto del quale, fino al XIII secolo, si sarebbe riunita la comunità della valle per tenere l’assemblea dei cittadini (conventus ante ecclesiam) e, in seguito, per il mercato coperto. Sono inoltre da segnalare i contrafforti aggiunti per motivi statici nel XVIII secolo sul lato destro della struttura e, nello spazio antistante alla facciata, le tracce di un ampio nartece.
La chiesa è a navata unica, con altare settecentesco ornato da motivi in stucco che fa da trono alla statua della Madonna e del Bambino, le cui figure sono celate da ampie vesti e coronate.
Lungo le pareti della navata sono frammenti di affreschi cinquecenteschi, riquadrati da sfarzose cornici dipinte (decorate da pietre circolari e motivi angolari a mo’ di bugnati a forma di diamante), che circoscrivono lo spazio occupato dai personaggi, isolati contro lo sfondo di ricchi panneggi. Sulla parete sinistra si individuano un pannello tripartito, recante le figure della Vergine con il Bambino tra i Santi Antonio Abate e Lucia, e un secondo frammento con San Sebastiano e San Rocco; sulla parete destra sono due riquadri contigui, l’uno raffigurante i Santi Rocco e Sebastiano (con lievi varianti rispetto al soggetto precedente) e l’altro la Madonna con il Bambino. La medesima bottega lavora nella chiesa superiore del Convento di San Francesco di Monteleone di Spoleto, dove gli sono attribuibili almeno due riquadri della navata laterale destra, commissionati da un certo Angelo di Ciascho (una Madonna di Loreto del 1530 e un pannello con i Santi Giuseppe e Antonio di Padova datato 1533), stilisticamente affini e con stessa cornice delle pitture di Ruscio.
Altri affreschi sono nella cripta dove, alla campagna di decorazione cinquecentesca e in continuità con l’affrescatura della navata, sono da ricondursi: il motivo sulla volta, costituito da un fregio che borda un fondo bianco invaso da stelle e cerchi rossi e verdi (imitante quello della volta nella cripta del complesso francescano di Monteleone); la pittura del Cristo Crocifisso tra la Madonna e San Giovanni Evangelista, che ha in basso a destra un piccolo riquadro votivo con una Madonna e un Santo; la parziale figura di un Santo su fondo ocra, tagliata dall’apertura di una porta. Al di sotto dello strato cinquecentesco, sulla parete dove era accostato l’altare è uno strato più antico di pittura, che raffigura un cavaliere con nimbo e spada, identificato da un’iscrizione come “S. Libertus” e datato da un’altra iscrizione al 1370. Potrebbe esservi dunque un legame di committenza con il Liberto (o Gilberto) eremita, membro della famiglia Tiberti e Terziario francescano, che in Santa Maria de Equo visse e fu sepolto intorno al 1400. Morto in odore di santità, alla sua persona è legato il racconto di numerosi prodigi. Interventi di recupero dell’architettura e degli affreschi sono stati effettuati tra il 2004 e il 2011.
Dell’antico corredo liturgico si conserva in San Francesco un calice baccellato in rame, con coppa fogliata d’argento e l’incisione: “RES PVBL. MONTIS LEONIS”, da riferirsi al XVII secolo. La chiesa è occasionalmente aperta al culto. Il giorno della festività antica è l’8 settembre, quando intorno al complesso si svolgeva un’importante Fiera.